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Contesti – Fisica sperimentale e collezionismo in Toscana

Negli anni Quaranta del Settecento, i nuovi sovrani lorenesi ordinarono la catalogazione della strumentazione scientifica esistente a Firenze, in vista di un suo trasferimento a Vienna. Tra gli oggetti, c’erano anche i resti della collezione dell’Accademia del Cimento – voluta da Leopoldo de’ Medici nel 1657 e attiva per un decennio – costituiti perlopiù da vetri giudicati ormai inutili e antiquati. Una parte di tali strumenti fu dunque lasciata sulle rive dell’Arno, ma la Toscana veniva a trovarsi in una posizione di secondo piano rispetto allo sviluppo dei gabinetti di fisica in Europa.

Una svolta arrivò nel 1748, con l’istituzione di un corso di fisica sperimentale all’Università di Pisa, affidato a Carlo Alfonso Guadagni. Guadagni avvertiva la necessità di creare una vera e propria scuola ma si dovette accontentare di tenere lezioni in case private, durante le quali le esperienze erano più dimostrative che mirate alla ricerca sperimentale. L’insegnamento di Guadagni e la nascita di gabinetti privati di fisica, che radunavano cerchie ristrette di studiosi, permisero comunque la circolazione di un newtonianesimo rivolto non tanto agli aspetti matematici, quanto a quelli empirici e sperimentali. Tuttavia, in genere le attività rimasero di tipo divulgativo e non produssero avanzamenti teorici di rilievo.

Intanto, con l’arrivo di Pietro Leopoldo nel 1765, iniziò a manifestarsi un nuovo atteggiamento nei confronti della ricerca naturalistica. L’interesse del granduca per le scienze si tradusse in incentivi a una ricerca che potesse avere ricadute sociali ed economiche, nonché nel sostegno a iniziative di rinnovamento istituzionale. Le carestie e le epidemie che colpirono la Toscana alla metà degli anni Sessanta spinsero i naturalisti a impegnarsi direttamente per il bene pubblico e anche i fisici, come Guadagni, si prodigarono nella realizzazione di strumenti da mettere a disposizione della collettività. Sintomatico del nuovo spirito fu l’incarico dato a Giovanni Targioni Tozzetti di catalogare le produzioni naturalistiche presenti nella Galleria Imperiale di Firenze. Fedele a un’impostazione storico-erudita, Targioni celebrò le glorie delle collezioni medicee, ma si fece carico anche di un auspicio diffuso tra i naturalisti toscani: la creazione di un museo di storia naturale aperto al pubblico. La sua visione non era ancora moderna, ma piuttosto quella di una collezione destinata in primo luogo ad accrescere la gloria del principe. I suoi desideri, in ogni caso, restarono delusi e – anzi – i pezzi più prestigiosi tra quelli catalogati furono inviati a Vienna.

In questi stessi anni, Felice Fontana si era stabilito in Toscana e aveva condotto le sue ricerche sull’irritabilità, l’iride, i globuli rossi e i veleni, dimostrando di tenere in grande considerazione la sperimentazione e l’uso degli strumenti nelle osservazioni. Proprio Targioni Tozzetti fu l’obiettivo di un attacco che Fontana lanciò contro la sua Alimurgia. Al cuore delle critiche dello scienziato trentino stava l’eruditismo di Targioni, frammisto a credenze popolari e inadeguato alla promozione dell’utilità pubblica, garantita invece da un’attenta indagine sperimentale. Al di là delle importanti questioni di metodo, la mossa di Fontana era forse motivata anche da una vicenda assai più contingente. Pietro Leopoldo aveva intenzione di creare un Gabinetto di Storia Naturale e Fontana ambiva a divenirne direttore screditando Targioni che, per il suo lavoro degli anni precedenti, era senz’altro un candidato forte a quella carica. Evidentemente, dietro la scelta tra i due studiosi c’era anche una scelta sul modello e l’impostazione da dare alla nuova istituzione.

L’ambizione di essere integrato negli ambienti granducali spinse Fontana a evitare di discutere troppo apertamente le implicazioni filosofiche o metafisiche della sua indagine naturalistica. Non a caso, anche nella sua prima opera sul veleno della vipera evitò di approfondire il tema della vita e della morte degli organismi, che gli avrebbe attirato accuse di materialismo. Le Ricerche fisiche sopra il veleno della vipera erano però una chiara manifestazione dell’indirizzo logico e sperimentale della sua scienza, che rifiutava l’erudizione e puntava a riallacciarsi alla memoria di Galileo e Francesco Redi. In realtà, la scienza di Fontana, costruita sulla congiunzione di teoria e pratica e diretta verso la pubblica utilità, rompeva con buona parte della tradizione toscana del Settecento e accoglieva i grandi temi dell’Illuminismo europeo.